Con l’avvento del digitale, gli studi nel settore del Marketing sono sempre più appetibili per i giovani. Eppure, la strada per arrivare a lavorare sul campo può variare moltissimo in base alle scelte che si effettuano post-diploma: un master rispetto a una magistrale, un tirocinio formativo universitario o un’esperienza all’estero, possono fare la differenza fra un tipo di formazione e l’altro.
Marketing: quale formazione?
Esistono dei percorsi più efficaci di altri per lavorare nel mondo del marketing? Lo abbiamo chiesto ad Alberto Mattiacci, Professore Ordinario di Marketing & Business Management presso l’Università di Roma Sapienza e Senior Fellow di Luiss Business School. “A mio avviso, nell’ipotesi che la persona abbia chiara vocazione in tal senso, il percorso migliore dura anni ed è fatto di tre cose”, spiega Mattiacci. “Uno: laurea base con alta o altissima votazione, certificazione di lingua inglese, Erasmus, possibilmente stage di progetto e/o qualche piccola esperienza lavorativa nel frattempo. Due: curiosità&cultura. Viaggiare, leggere libri, cinema, sport, volontariato, coltivare passioni, essere insomma totalmente dentro il nostro tempo facendo cose. Tre: Laurea magistrale o Master verticale. Non tutti e due, è troppo, diventa accanimento terapeutico superfluo”, scherza.
Ovviamente c’è una differenza tra i percorsi, in base a cosa si decide di lasciare fuori fra i tre elementi citati: “Se non coltivi la Due, Uno e Tre sono superflui, faranno di te “solo” uno che passa la maggior parte delle ore di veglia a lavorare”, conferma Mattiacci. E conclude: “Se hai anche la Due, è possibile che non lavorerai un’ora della tua vita, perché farai cose che ti appassionano”.
GenZ e Formazione: un rapporto che cambia?
Se la formazione negli anni è cambiata, è anche vero che lo ha fatto per una diversa tendenza nel fruirne, da parte dei più giovani. Si può dire che la GenZ abbia un diverso rapporto con la formazione rispetto alle generazioni precedenti? “Non conosco bene i dati, per cui restituisco un’idea basata sulla mia esperienza diretta, perciò limitata e fallace per definizione”, risponde Mattiacci. “A me pare che sul piano dell’education più che un generation-divide si sia riprodotto un origin-divide, tipico di altre epoche e che la scuola pubblica avrebbe dovuto annullare ma, avendo fallito, è tornato su”.
Un rapporto che cambia perché cambiano le famiglie, quindi? “Sostanzialmente, non mi pare che la scelta se investire tempo, fatica, opportunità nello studio oppure no sia dettata dall’età, ma dall’orizzonte che si riesce a vedere, e questo dipende dalla famiglia d’origine, non da quando sei nato”, spiega. “Del resto, l’umanità di questa parte di pianeta nella quale abbiamo la fortuna di essere nati, non è mai stata meglio di oggi, sia in termini di benessere goduto che di prospettive. È appunto una questione di orizzonte: se non si conviene con la mia affermazione precedente, il problema è lì – e, allora, in effetti, perché studiare?”.
È anche vero che la GenZ è la generazione che forse più delle altre sta modificando, attraverso il digitale, i paradigmi di imprenditoria, autopromozione, scelta e consumo consapevole. Che tipo di consumatori sono quindi i giovani, e che tipo di imprenditori sono o possono diventare? “In potenza, una parola: migliori. Ma solo in potenza”, dice Mattiacci. E spiega: “I giovani attuali, se bravi, sono straordinariamente validi, comparativamente molto di più di noi alla loro età. Hanno tutto ma proprio tutto, a disposizione per farcela, ma devo aggiungere due purtroppo”. Due purtroppo, dei quali il primo riguarda l’istruzione, e il secondo la costruzione di quelle soft skill e quella mentalità che si forma soprattutto al di fuori delle mura scolastiche: “Purtroppo numero uno: la scuola – generalizzo – ha fatto loro detestare lo studio, ha presentato l’inglese come una materia, ha relegato il pensiero matematico a un mero fatto di numeri&formule. Qui torna l’origin-effect che dicevo prima”, spiega. “Purtroppo, i bravi sono meno numerosi di prima. Più bravi ma di meno, e pochissimi di loro hanno capacità di vedere un orizzonte”. E poi c’è la mentalità: “Purtroppo numero due: in Italia pochi giovani fanno sport e perciò non sono allenati alla competizione, che richiede mente più che fisico (ascoltate Sinner: parlare per capire). Molti pensano che un 100 con lode in tale università dal brand roboante farà di loro una persona di successo. Auguri…”, conclude.
Il futuro del Marketing: prospettive
Nei suoi studi Mattiacci si focalizza molto sulla figura del consumatore al centro del processo di marketing. Un consumatore che spesso – come abbiamo detto – ha nuovi paradigmi, nuova cultura e nuova età anagrafica. Come sta cambiando quindi il mondo del marketing e cosa renderà in futuro davvero competitiva un’azienda rispetto a un’altra? In altre parole: su quali nuovi paradigmi dovranno soffermarsi i giovani che vorranno formarsi per entrare nel settore? “Parto dalla fine, con tre T (all’americana): Tecnologia, Talento, Tenacia”, spiega. “Un’azienda che non sappia interpretare le tre T in modo straordinariamente efficace, avrà solo il prezzo come strumento per fare accettare i propri prodotti. Se ci riflettete su, tutto converge su queste cose – che poi significano, in ultima istanza, persone di valore in un contesto di qualità”.
Non è un caso che il marketing si focalizzi in gran parte sull’esperienza diretta del consumatore, raggiungendolo sui canali che frequenta maggiormente e rivolgendosi in alcuni casi anche all’Influencer marketing. Per la GenZ – di cui abbiamo parlato finora – è particolarmente importante infatti manifestare la propria unicità attraverso l’acquisto di un prodotto. Non interessa più il nome del brand, ma ciò che quel brand esprime a livello di valori e identità.
Del resto, “Marketing è una parola che negli anni ha assunto molti significati e ancora lo farà: oggi sta cambiando in ossequio alla tecnologia. Tutte le parole nuove del marketing sono in quel dominio lì (persona, journey, funnel, impression eccetera)”, continua. “Tuttavia, la rivoluzione vera è e sarà, come sempre, nel pensiero che c’è dietro: in un mondo di abbondanza di beni e marche, questo non può che essere orientato alla personalizzazione della relazione con il consumatore. Trovo che questo spazio dell’economia recuperato alle scienze umane e sociali sia molto affascinante”.