Teorizzata sin dagli anni ’70, la società dei consumi è arrivata fino a noi, con un nuovo volto. Quali bisogni mette in piedi e quali strategie segue oggi rispetto all’epoca di Pier Paolo Pasolini?
L’attenzione della classe intellettuale verso il consumismo nasce dopo il boom economico degli anni ’60. Il mondo, letteralmente ricostruito dalle ceneri della Seconda guerra mondiale, stava vivendo una nuova epoca di benessere economico e sociale. Nascono in questi anni i Boomers, la generazione che non ha conosciuto la guerra, ma che anzi, ha vissuto in prima persona la rinascita del proprio paese.
L’Italia del boom economico è quella della Fiat, colosso che sposta – letteralmente – manodopera specializzata dal sud al nord Italia per costruire prodotti di eccellenza esportati in tutto il mondo. È l’epoca di un paese che si (ri)scopre grande attrattiva turistica, ma che impara anche a lottare per diritti civili come il divorzio e l’aborto, reclamati a gran voce attraverso due storici referendum che contano un’affluenza di quasi il 90% degli aventi diritto.
Pasolini e il consumismo
Nasce da qui l’unica voce discordante all’interno di un quadro che appare perfetto: Pier Paolo Pasolini, sui suoi Scritti Corsari, pone l’accento sul falso benessere che sta trasformando la società italiana in borghese, facendo emergere nuovi bisogni non necessari. Politicamente, Pasolini parla di un nuovo fascismo, che si sta insinuando nella coscienza degli italiani attraverso l’omologazione culturale ed edonistica. L’onda di benessere arrivata all’improvviso e così velocemente tra la popolazione, le ha impedito di rendersi conto del cambiamento, trascinandola in un vortice di nuovi bisogni non necessari, eppure – paradossalmente – indispensabili.
Quando Pasolini parla di omologazione, e lo fa tirando in ballo anche i nuovi mezzi di comunicazione – la TV, all’epoca – è chiaro che sta introducendo un concetto che dalla Caduta del muro di Berlino risulterà ancora più chiaro e pervasivo: la Globalizzazione. Se la televisione è stato strumento fondamentale per la costruzione di una coscienza collettiva e di un’identità linguistica prima frammentata in dialetti – si pensi allo storico programma Non è mai troppo tardi del Maestro Manzi, che ha insegnato a leggere e scrivere l’italiano a milioni di analfabeti – è anche vero che la sua pervasività ha portato velocemente alla diffusione incontrollata e incondizionata di nuovi valori, molto lontani dai precedenti. Uno strumento del potere, secondo Pasolini, che ha dato l’illusione di un progresso, portando al centro, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza, esclusivamente il profitto. E, parafrasando anche Adorno, togliendo alla classe dominata il senso critico per rendersi conto delle iniquità e acquisire potere.
Il consumismo oggi
Se al tempo di Pasolini il dibattito politico iniziava a mostrare le prime incrinature e il consumismo i primi segni di reale potere sulla popolazione, oggi, la tendenza che l’intellettuale vedeva prossima, è pienamente in atto. Il marketing permea gran parte della vita: non è più orientato esclusivamente all’acquisto di oggetti, ma anche di ideali, status, idee politiche. Le campagne elettorali vendono come fossero beni di consumo, l’io è definito non da ciò che si è ma da ciò che si ha. Le scelte di acquisto forgiano la personalità di chi se ne fa carico, e spesso ne determinano anche lo status. Il risultato? L’accentuarsi delle disuguaglianze e della competizione non solo fra i brand ma anche fra le persone.
Si parla di consumismo competitivo: a spingere all’acquisto non è il bisogno, ma l’emulazione. Per questa ragione per convincere gli utenti a portare a termine un dato acquisto non è necessario instillare il bisogno di un oggetto attraverso la pubblicità, ma quello di essere (o sentirsi) semplicemente identici ad altri. I social, come in uno specchio riflettente, hanno amplificato questa percezione: così, una vacanza costosa può non essere una piacevole necessità o uno svago che ci si concede per staccare dalla quotidianità, ma un modo per mostrare al resto del mondo il proprio status, reale o presunto che sia.
Prima che l’influencer marketing vivesse lo scossone di dicembre 2023, la spinta all’acquisto data dai social era dovuta anche alla fiducia riposta in personaggi pubblici che l’audience sentiva come più prossime rispetto ai propri gusti e ai propri ideali. Marketing e comunicazione online diventano un’unica cosa, e anche temi come la sostenibilità, il benessere fisico e mentale, l’inclusività, se integrati all’interno di una community, possono diventare leve di marketing, perdendo una parte – se non tutta – della loro spontaneità.
Non solo Black Friday: l’evento diventa marketing
Natale, San Valentino, Pasqua. Ma anche il Black Friday, il Cyber Monday, il mese del Pride, la giornata contro la violenza sulle donne. E poi Halloween o St. Patrick. Ogni evento, che sia legato a una festività propria o altrui, religiosa o laica, o a un movimento che nasce da ideali o lotte di eguaglianza, può diventare oggetto di marketing. San Valentino 2024 ha portato al solo settore della ristorazione un giro d’affari di oltre 270 milioni di euro (dati Fipe, Federazione italiana dei pubblici esercizi): è facile immaginare che ogni evento, piccolo o grande, sia un’occasione ghiotta per spingere all’acquisto potenziali clienti. Si pensi solo che il Black Friday, inizialmente legato a un singolo venerdì d’autunno in cui gli sconti su determinati prodotti diventano occasioni uniche e limitate, oggi ha assunto la forma della Black week, un’intera settimana di promozioni sponsorizzata con enorme anticipo e un battage pubblicitario decisamente importante.
Ma se ogni evento, anche quelli più legati a etica e ideali personali, diventano occasioni per vendere prodotti commerciali, ecco che si creano anche le loro nemesi: si parla di Blackwashing, Pinkwashing, Greenwashing, Rainbowwashing e via dicendo: in poche parole, le aziende fingono di supportare valori che non incarnano realmente, al solo scopo di provocare nel possibile cliente una reazione di empatia che lo porti a scegliere un brand che supporta la sua causa rispetto ad un altro. Il tutto, sfruttando spesso gli stessi canali usati per informare e divulgare su questi temi: i social media. Ma il washing, ci si chiede ora che la strategia di marketing che sottende inizia a venire alla luce, funzionerà ancora per molto? O piuttosto si ritorcerà contro gli stessi brand?
Pasolini aveva ragione?
Rispondere a questa domanda non è semplice. La classe media odierna, a differenza di quella pasoliniana, non ha lo stesso potere d’acquisto: la grande discrepanza fra nuovi ricchi e nuovi poveri, l’inflazione galoppante e gli eventi – pandemia, guerra – che hanno sconvolto gli equilibri mondiali negli ultimi anni, hanno completamente capovolto lo scenario all’interno del quale Pasolini teorizzava le proprie idee.
La classe borghese di oggi non è quella di ieri: e non è solo una questione di consapevolezza politica, quanto piuttosto di un impoverimento generale che porta a un livellamento sociale verso il basso. Manca il benessere del boom economico, eppure i bisogni – spesso indotti – continuano a persistere.
Certo è che gli strumenti di informazione, sempre più pervasivi e sempre meno critici, favoriscono i bisogni materiali rispetto a quelli intellettuali. Se per essere bisogna innanzi tutto avere, e farlo a ogni costo, la necessità di mostrare uno status vero o presunto diventa il principale modo per dimostrare chi si è.
In questo scenario, la comunicazione ha un ruolo fondamentale. È lecito chiedersi: se la televisione è superata e i social stanno dimostrando anche le loro parti più oscure, che strumenti useranno gli intellettuali di domani per svegliare le coscienze e attivare il pensiero critico?