In un mondo che aumenta di anno in anno l’aspettativa di vita, The substance parla di ageism e contraddizioni. Che riguardano anche i giovani
Un horror sui generis che sta collezionando nomination e premi. Vincitore di un premio Oscar, un Golden Globe, un premio al Festival di Cannes, un BAFTA, due premi European Film Awards e un premio SAG Awards, The substance, dal momento della sua uscita, non smette di far parlare di sé.
La trama in breve: una stella della tv di mezz’età, dopo essere stata rifiutata per un lavoro, decide di sottoporsi a un trattamento che promette di far ringiovanire chi lo usa. Come? Attraverso la creazione di un doppio, giovane e sensuale, che vive e agisce in vece della versione reale a settimane alterne. Non tutto va però come previsto, e presto le due versioni di Elisabeth, la protagonista, cercheranno di prendere il sopravvento l’una sull’altra.
Il messaggio di The substance
Nonostante le sue 14 nomination totali facessero presagire un successo più consistente da parte della critica, a The substance si deve senz’altro la capacità di aver sollevato nuovamente una voce all’interno del dibattito sull’ageism, la discriminazione basata sull’età, le cui vittime sono soprattutto donne. La protagonista, licenziata il giorno del suo compleanno e costretta a lasciare il suo lavoro da insegnante di fitness in tv, deve fare i conti non solo con i pregiudizi maschili sul corpo femminile, ma anche con quello stesso pregiudizio interiorizzato: è questo che la fa optare per una soluzione radicale, che sconvolgerà la sua vita con la promessa del ritorno di una giovinezza andata.
È l’interiorizzazione del pregiudizio, il punto su cui il film si sofferma. La protagonista è talmente intrisa di una cultura che discrimina in base all’età anagrafica, da non essere in grado di trovare soluzioni alternative alla sua carriera: se il suo lavoro è da sempre stato basato sull’esteriorità, è quell’esteriorità che lei dovrà ritrovare per continuare ad essere sé stessa.
Ageism e lavoro
Eppure, volgendo lo sguardo al mondo reale, al di fuori della finzione cinematografica, in una società che invecchia senza garantire un ricambio generazionale, la questione dell’età e della relativa discriminazione rischia non solo di essere insensata, ma addirittura sorpassata. Se fino a un paio di decenni fa dopo i 30 anni si poteva sperare di aver raggiunto un buon traguardo nella propria carriera professionale, con una crescita che avrebbe trovato ulteriore conferma negli anni successivi, oggi le cose non sono più così lineari.
Fabiana Andreani, che sui social si occupa di divulgazione sui temi del lavoro e della formazione, ha fatto della lotta contro l’ageism un suo cavallo di battaglia. In questa intervista a Medium racconta, ad esempio, come i 30 anni non siano un punto di arrivo, ma uno di partenza, spesso, per un nuovo cammino. A 30 anni, scriveva ancora tre anni fa in un post su LinkedIn, si inizia a maturare una consapevolezza che a 25 non si ha. Dopo i 30, inoltre, si può iniziare a vantare un’esperienza professionale ampiamente richiesta nel mondo del lavoro: il che rende assolutamente fuori tempo gli annunci di lavoro che si rivolgono a giovani laureati per mansioni complesse e ruoli strutturati.
La precarietà che blocca i giovani nel loro percorso di stabilità professionale investe ormai la maggior parte dei percorsi lavorativi e impedisce di ragionare sul lungo termine. La prospettiva di pensioni scarne e l’aumento dell’aspettativa di vita lascia presagire che le nuove generazioni lavoreranno molto a lungo, probabilmente più dei loro genitori: ha ancora senso, quindi, parlare di “età massima” nella ricerca di un profilo per una posizione?
L’altra faccia dell’ageism
Se per molti ageism è sinonimo di pregiudizio nei confronti delle persone anagraficamente più grandi, in molti casi la discriminazione avviene esattamente al contrario. Sono ancora moltissimi i contesti – soprattutto professionali – dove essere giovani è considerato un minus. Farsi strada in un ambiente di lavoro quando si è giovani significa essere costantemente sottoposti a gavetta o non essere presi sul serio (si pensi all’ambito sanitario, dove una maggiore età anagrafica viene spesso associata a maggiore esperienza).
Eppure, e ne abbiamo parlato in un articolo a proposito di reverse mentoring, a diverse età corrispondono generalmente diverse competenze – hard e soft – che possono essere facilmente scambiate in un ambiente aperto e collaborativo, arricchendo tutte le risorse, junior e senior. Parola d’ordine, anche in questo caso, è comunicazione.
Partendo da The Substance, quindi, abbiamo visto quanto profonda e sfaccettata sia la questione che gira attorno ai pregiudizi sull’età, e quanto il mondo contemporaneo ci imponga di ripensare certi schemi, in virtù di cambiamenti sociali ormai sotto gli occhi di tutti. E di farlo prima di tutto partendo da sé stessi.